Autore: Federico Fanti Per i visitatori del Museo Geologico Giovanni Capellini di Bologna, le due lastre di marmo giallastro che hanno preservato per 160 milioni di anni i resti di un grande coccodrillo marino sono per lungo tempo sembrate “anonime”, in particolare dopo l’allestimento nelle sale attigue di reperti come l’imponente Diplodocus o il Mastodonte.
Eppure, la storia di questo fossile è tra le più interessanti di tutto il museo, così come il reperto che custodiscono. La storia comincia nel 1955, in una normale giornata di lavoro presso la ditta dei Fratelli Pasini a Portomaggiore, in provincia di Ferrara.
Immagine - 1 - Federico Fanti (sinistra) e Andrea Cau (destra) esaminano le lastre esposte al Museo Piero Leonardi di Ferrara (fotografia di Andrea Pirondini)
Un largo blocco di calcare proveniente dal veronese e destinato come centinaia di altri a divenire parte di un cavalcavia o forse di un marciapiede viene tagliato in lastre dello spessore di pochi centimetri.
Immagine - 2 - Fase di ricalco su lucido delle parti ossee conservate (fotografia di Andrea Pirondini)
È proprio durante le procedure di taglio che Francesco Pasini nota una serie di tracce bianche che ben si differenziano dal giallo delle lastre; tracce che persino per un non esperto sono facili da identificare come i resti di un grande vertebrato.
Si notano infatti molto bene i denti e le robuste mandibole appartenute ad un cranio lungo oltre un metro preservato nel duro calcare assieme ad altri reperti fossili, come i gusci di ammoniti e belemniti.
Immagine - 3 - le quattro lastre contenenti i resti di Neptunidraco ammoniticus
La segnalazione alle autorità competenti è seguita in tempi rapidi al sequestro delle lastre da parte della Sopraintendenza ai Beni Culturali e dopo non pochi scontri tra Bologna e Ferrara, che rivendicavano entrambe il diritto di assegnazione dei reperti, la salomonica e conclusiva sentenza: due lastre sono assegnate al Museo Capellini di Bologna, due lastre al Museo di Ferrara che oggi porta il nome di Piero Leonardi.
Un primo sommario studio del reperto ne attribuisce la provenienza geografica alle cave di calcare di Sant’Ambrogio di Valpolicella (Verona), l’età al Giurassico medio (150 milioni di anni), e il cranio preservato alla famiglia Metriorhynchidae, un gruppo estinto di coccodrilli adattati alla vita in mare vissuto nel Mesozoico, ed in particolare nel Giurassico e Cretaceo. Il reperto viene ribattezzato dunque “il coccodrillo di Portomaggiore”.
Da allora, correva l’anno 1956, le lastre sono state esposte nelle collezioni permanenti di entrambi i musei, sotto gli occhi di migliaia di visitatori.
Si deve attendere fino al 2009 per proseguire con la storia di queste lastre. Durante una visita alle sale del Museo Capellini, il paleontologo Andrea Cau viene incuriosito da alcune caratteristiche anatomiche del cranio preservato nelle lastre e propone di approfondire lo studio del reperto a Federico Fanti, che si occupa di vertebrati per il Museo di Bologna.
Ne segue uno studio dettagliato di tutte e quattro le lastre, grazie anche alla collaborazione dei direttori del Museo di Bologna (Prof. Gian Battista Vai) e di Ferrara (Prof. Benedetto Sala) per determinare non solo le caratteristiche anatomiche del “coccodrillo di Portomaggiore” ma anche per verificare la sua età.
Immagine - 4 - ricostruzione di Neptunidraco ammoniticus realizzata da Lukas Panzarin
Appare subito evidente che, per un caso a dir poco fortunato, il taglio del blocco ha sezionato il cranio del coccodrillo marino in porzioni sovrapponibili, una vera e propria TAC eseguita con mezzi non comuni in paleontologia.
Il cranio e alcune vertebre del collo sono preservate in modo tridimensionale e preservano tutte le caratteristiche necessarie per ricostruire l’aspetto dell’animale.
Immagine - 5 - Modello in scala 1:1 di Neptunidraco ammoniticus realizzato da Davide Bonadonna
Con questi dati a disposizione è possibile stabilire che il coccodrillo appartiene ad una specie non ancora conosciuta. Si procede anche a prelevare un campione di roccia per verificare il contenuto dei microfossili (organismi di dimensioni millimetriche che costituiscono la matrice della roccia) e datare con precisione il sedimento.
L’età che si ottiene è più antica di quella stimata in origine e viene fissata a 167 milioni di anni fa.
Lo studio, pubblicato di recente sulla rivista Gondwana Research rivela il nome con cui viene ribattezzato il “coccodrillo di Portomaggiore”: Neptunidraco ammoniticus (letteralmente “il Drago di Nettuno dalla Formazione del Rosso Ammonitico”).
La scoperta è davvero importante: Neptunidraco, infatti, rappresenta il più antico metriorhynchide mai scoperto, il primo ad essere rinvenuto nel margine settentrionale di quello che un tempo era il margine settentrionale del Gondwana (che comprendeva Africa, Sud America, India, Australia e Antartide).
Nonostante sia il primo rappresentate conosciuto di questo gruppo di coccodrilli adattati per la vita in mare aperto, Neptunidraco ammoniticus presenta alcune caratteristiche che lo identificano come un animale altamente specializzato, che si nutriva di pesci, altri rettili, e anche grandi ammoniti, come testimoniano i robusti denti.
Come tutti i coccodrilli, tuttavia, anche Neptunidraco deponeva le uova sulla terraferma e di conseguenza doveva necessariamente abbandonare la vita in mare per riprodursi.
Immagine - 6 - Davide Bonadonna e il modello in scala da lui realizzato di Neptunidraco ammoniticus
Le lastre, insieme a dettagliate ricostruzioni anatomiche e modelli, saranno l’oggetto di una mostra che si terrà nel 2011 presso le sale del Museo Geologico Giovanni Capellini di Bologna.
Autori: Federico Fanti e Andrea Cau